sabato 18 febbraio 2012

TERZE LICEO - Film "Le regole della casa del sidro"

Le regole della casa del sidro
(The Cider House Rules)

Il medico del Maine
si candida all'Oscar

di ROBERTO NEPOTI  (da Repubblica, 14 marzo 20009)


SIAMO ormai in dirittura di Oscar e continuano a uscire sui nostri schermi i film fregiati di nomination. Corre per sette statuette Le regole della casa del sidro, un classico racconto di formazione tratto dalle pagine di John Irving (lo scrittore appare nel film in un "cammeo") e realizzato in America dallo svedese Lasse Hallstrom. Le regole del titolo si riferiscono ai raccoglitori stagionali di mele, cui per un po' si unisce il giovane protagonista della storia: Homer Wells (Tobey Maguire), orfano adottato dal generoso dottor Larch (Michael Caine, in una parte cui un tempo si era candidato Paul Newman), medico filantropo che manda avanti un orfanotrofio nel Maine, si prodiga per i ragazzini senza famiglia e pratica l'aborto onde evitare guai peggiori.

Il film sostiene la necessità di infrangere, all'occorrenza, le regole, nella casa del sidro o altrove, purché le violazioni siano compiute a fin di bene. Per conto nostro se ne dovrà convincere Homer, protagonista di un rito di passaggio che comprende l'amore per la bella Candy (Charlize Theron), il lavoro e un aborto, prima del ritorno alla casa del padre putativo per prenderne il posto.

Alla presentazione in concorso a Venezia molti, commentando Le regole della casa del sidro, hanno nominato Charles Dickens, che il film cita del resto esplicitamente (assieme a parecchie altre cose). L'andamento narrativo è quello tipico del melodramma, dove si matura attraverso l'amore e il dolore e tutto quel che viene detto ha un significato drammatico o patetico, comunque pregnante ("Buonanotte, o principi del Maine", saluta i suoi orfanelli il buon dottore); anche se, magari, con qualche grano di tenero humour succhiato dai romanzi di formazione di Mark Twain e affidato, qui, al bravo Caine.

Non è difficile capire perché ai giurati sia piaciuta tanto una storia raccontata alla maniera classica del cinema americano: con un andamento solenne, un sicuro senso dello spettacolo, qualche notazione sdolcinata, una confezione elegante senza lampi di creatività. Fatto salvi - magari - i momenti con i bambini, che fin dall' esordio con La mia vita a quattro zampe hanno sempre ispirato Hallstrom. Un film di "studio" insomma (la Miramax), dove i contenuti stoici e coraggiosi del romanzo di Irving (la maturità è accettare che gli altri facciano le loro scelte) finiscono per omogeneizzarsi e adeguarsi alla logica dell'intrattenimento.

> Riflessioni sul film di alcuni studenti:
     
     “Un tema fondamentale del film è quello delle relazioni; a mio parere, la più significativa è quella che lega Homer ed il dottor Larch, il quale può essere considerato a tutti gli effetti il padre del giovane. Sembra che il dottore, subito dopo un brevissimo sguardo ad Homer, quando quest’ultimo è ancora in tenerissima età, colga che nell’animo del bambino c’è un qualcosa di speciale, che lo rende diverso dai suoi coetanei e fa di lui quasi un predestinato, una persona indubbiamente ‘utile per gli altri’. E così il dottore trasmette al giovane, effettivamente dotato di una particolare propensione all’apprendimento e di una grande volontà, le sue competenze in campo medico, con il chiaro scopo di fare di lui il suo erede nella direzione della piccola clinica di St. Cloud; ed è in questo che, a mio parere, possiamo rintracciare un lato negativo, o almeno egoistico, del carattere del dottore, che risulta deciso a vincolare Homer alla realtà ristretta del luogo in cui il ragazzo ha sempre vissuto, quasi non prevedendo altro per il suo futuro; questo comportamento può essere giustificato in parte immedesimandoci nella figura dell’uomo, che vede Homer come una creatura di cui può godere esclusivamente St. Cloud. Quando il ragazzo decide di partire, animato dal desiderio di ‘vedere l’oceano’, ossia di conoscere il mondo, di uscire da una realtà che gli sta stretta, che lo limita, inizia per il dott. Larch una parabola discendente, una degenerazione a livello psicologico, che lo porta alla morte. Homer, dopo aver appreso la notizia della sua scomparsa, decide di tornare, sentendosi in dovere. Se il legame tra lui e il dottore fosse stato leggermente meno intenso, il ragazzo avrebbe optato comunque per un ritorno al piccolo St. Cloud, lasciandosi alle spalle il vasto oceano?”

“È difficile poter giudicare una donna che decide di abortire. Certamente è necessario considerare l’intero contesto in cui si trova a dover affrontare il problema. Quella di abortire è una scelta di grande importanza e difficoltà, dal momento che non riguarda unicamente la donna-madre, ma in ballo c’è anche la vita di un’altra persona, non libera di scegliere della propria stessa vita. Certamente si tratta di una scelta di grande responsabilità e profondità, tale da segnare, talvolta anche per tutta la vita, una persona. È necessario, tuttavia, prima di poter giudicare (se possibile) una donna che prende una decisione così impegnativa, considerare le condizioni in cui si trova e le motivazioni, talvolta evidenti, per cui ha scelto di prendere questa strada. Nel film, infatti, vengono presentate due situazioni di aborto ben differenti tra loro. La prima a trovarsi nella situazione di voler abortire è Candy: una donna giovane e con un compagno che dimostra di amarla. Candy decide comunque di porre fine alla sua gravidanza, lasciando ignote, però, le motivazioni reali di tale gesto. Nella seconda parte del film, invece, ad abortire è Rose Rose, ragazza messa in cinta dal padre, che era solito abusare di lei. Il caso di Rose Rose appare certamente molto più complesso e problematico del primo. In realtà, quindi, non è giusto dare un giudizio così superficiale ed affrettato; la scelta presa da Candy è altrettanto sofferta e, fin dall’inizio, quando lei e il suo compagno si trovano nello studio del dottore, lei appare non del tutto convinta e, dopo l’aborto, appare sconvolta nel più profondo del suo animo, più volte anche in modo evidente. Rose Rose, oltre ad affrontare il dramma interiore di portare a termine l’aborto, si trova a dover affrontare anche il dramma di avere come ‘malfattore’ proprio il suo stesso padre.”

 “Giusto e sbagliato, bene e male sono argomenti centrali del film. Fin dall’inizio, Homer e il dottor Larch si scontrano sul problema dell’aborto; Candy vive una relazione controversa col giovane dottore: lei è già sposata e suo marito torna paralizzato dalla guerra; infine il padre di Rose commette uno dei peccati più terribili. Tuttavia ogni personaggio riscatta la propria colpa e il film si conclude con il ritorno simbolico del protagonista nel luogo da cui era partito. Il regista ha scelto alcune situazioni che appaiono sbagliate a prescindere, proprio per mettere in luce tutte le sfumature, i risvolti psicologici delle persone coinvolte, che spesso non vediamo. Significativa, a tal proposito, è la scena in cui Homer legge ad alta voce le ‘regole’ della casa del sidro e poi le getta nel fuoco. Homer è stato proiettato in questo mondo di grigi, non lo guarda più con distacco, ha imparato a sue spese che molte cose sono diverse, viste ora da un’ottica diversa, e distrugge quelle leggi scritte da uomini che non hanno vissuto la sua esperienza.”

 “La scena finale chiude perfettamente il quadro del punto di vista del significato del film. È quando Homer tornato nell’orfanotrofio annuncia la buonanotte ai bambini e ancora fermo sull’uscio, prima di chiudere la porta, e far ricadere la stanza nella penombra, esclama con un sorriso nostalgico sulle labbra : «Buonanotte principi del Mayne, re della nuova Inghilterra». Era l’esclamazione abituale del dottor Larch, una consuetudine; ogni sera veniva pronunciata con un misto di austerità e tenerezza dal dottore prima che la porta venisse chiusa. Era una ricorrenza, una routine che terminava la giornata per i bambini. Subito dopo, anche se non erano state compresa appieno, quella frase suscitava interrogativi piacevoli tra i bambini, che si addormentavano con il sorriso sulle labbra ripensando a quelle misteriose parole ripetute loro ogni sera e che, in qualche modo, li rendeva ‘importanti’. Ruolo che, fino a prima della sua morte, il dottor Larch non ha mai mancato di adempiere. Homer nel suo travagliato percorso alla fine ritorna a casa, dopo aver visto l’oceano, dopo aver provato sulla sua pelle nuove esperienze, dopo aver conosciuto realtà diverse, ritorna al suo punto di partenza. In parte è una scelta, in parte si sente quasi predestinato a quel luogo. Il dottor Larch, forse per egoismo o forse accecato dal troppo amore, lo sapeva bene. Homer ancora no, doveva sperimentarlo sulla propria pelle. E quando giunge il momento, deluso dall’amore, carico di esperienze, ricordi, avventure, capisce che è il momento di tornare. Tornare ad occupare il posto che il destino gli ha riservato. C’è voluto del tempo per acquisire questa consapevolezza. Un percorso formativo. Alla fine torna, niente sembra cambiato, tranne il fatto che il dottor Larch non c’è più. Ecco allora che avviene quell’ultima scena, carica di emozioni, che si leggono negli occhi e nel sorriso di Homer. Ora è lui a dare la buonanotte agli orfani, ricopre lui questo compito. E con questa ‘investitura’ consenziente da parte di Homer, termina il film.”

 “Ciò che mi ha colpito molto del film è il viaggio di formazione che compiono molti personaggi, non solo il protagonista. Homer, il personaggio principale, vuole trovare il suo posto nel mondo; lascia perciò l’orfanotrofio alla prima occasione, per conoscere nuove realtà, ma alla fine ritornerà, finalmente consapevole del ruolo che è destinato a svolgere. Ugualmente Candy, come Homer, tornerà con il fidanzato che, partito per la guerra, è tornato ferito e la ragazza, mossa dai sensi di colpa per averlo tradito con Homer, riconosce che tornare con lui sia la cosa giusta da fare. Probabilmente questa azione determina la scelta di Homer di tornare all’orfanotrofio. Se avesse potuto scegliere tra la ragazza e i bambini dell’orfanotrofio, avrebbe davvero scelto loro? Anche Mr. Rose, personaggio secondario, maturerà alla fine del film, consapevole di aver violato i legami tra padre e figlia, distrutto dai sensi di colpa, capisce l’errore irreparabile che ha compiuto e morirà pentito. Tutti e tre i personaggi alla fine ritornano al ruolo iniziale, a cui inconsciamente sapevano di essere destinati ma, attraverso questo viaggio di formazione, ne acquistano consapevolezza.”

 "Mi è rimasto particolarmente impresso un invito rivolto dal dottor Larch al giovane Homer: «Fai qualcosa per renderti utile». Homer all’inizio del film non comprende fino in fondo il significato di questa frase. Forse non apprezza ancora tutto quello che con attenzione e cura gli ha insegnato il dottore perché i muri dell’orfanotrofio ormai gli stanno stretti, deve adempiere ad un dovere che gli è stato in qualche modo imposto, che non ha scelto. All’inizio del film è proprio il dottor Larch a prendere le decisioni che coinvolgono Homer: lui lo sceglie come assistente, lui gli dice cosa fare per prendersi cura, insieme alle infermiere, dei piccoli orfani. Il dottor Larch, nel momento in cui Homer decide di partire per conoscere e vedere una nuova realtà, non può che mostrarsi insoddisfatto, triste e deluso: lui dava per scontato che Homer un giorno avrebbe preso il suo posto, l’ennesima scelta del dottore fatta al posto del giovane. Nel periodo lontano dall’orfanotrofio Homer cresce, conosce tante persone diverse, s’innamora, gioisce e soffre cominciando una vita da zero, una vita senza l’interferenza del dottore che tanto lo amava e che pensava sempre di scegliere il suo bene. Homer capisce cosa vuol dire ‘rendersi utili’ quando si ritrova ad essere l’unico che può salvare Rose Rose, e sempre in questo momento apprezza veramente tutto ciò che gli aveva insegnato il dottor Larch. Homer alla fine del film ha completato il suo cammino di crescita: è+ diventato responsabile di sé stesso. Torna all’orfanotrofio, secondo me, solo in parte condizionato dagli eventi (il ritorno del marito di Candy e la morte del dottor Larch) perché, se avesse voluto, avrebbe potuto cominciare un’altra volta da capo, accettando la proposta dei raccoglitori di mele. Homer, invece, ha capito che il suo posto, il suo ruolo è quello di medico dell’orfanotrofio. Egli torna proprio da dov’era partito ma questa volta è una sua scelta, è lui a decidere cosa fare della sua vita.”

 “Quando una persona mente, e ottiene il suo scopo, la colpa è anche di chi crede alla bugia. Il dottor Larch racconta ai suoi orfanelli che un bambino morto è stato adottato: come previsto viene creduto, perché i bambini preferiscono pensare il loro amico in una nuova famiglia che al cimitero. Spesso le apparenze ingannano: il signor Rose sembra un padre affettuoso e invece ha un rapporto morboso con la figlia; Candy sembra una ragazza opportunista, ma alla fine allontana un ragazzo che ha amato per stare vicino ad un altro in difficoltà che può offrirle ben poca felicità; il dottor Larch sembra cinico, ma si prende cura dei suoi orfani il meglio possibile. Le regole creano un’apparenza di ordine e legalità, ma non sono necessariamente scritte per il benessere e l’utilità di chi le deve seguire. Mentire è sbagliato nella mentalità comune, ma mentre a fin di bene non è considerato un male. Fare una cosa sbagliata a fin di bene può essere considerato un peccato, ma lo è secondo le regole scritte. È difficile distinguere vera generosità e altruismo nei rapporti con gli altri. Dove si ferma il nostro interesse per l’altro e inizia la gratificazione? È difficile dire se il dottor Larch allevi gli orfani solo perché non è riuscito a fare di meglio nella vita o per vero altruismo, o perché Homer torni, se per stare vicino ai bambini e continuare il lavoro del dottor Larch, o perché essere un medico e sentirsi utile nell’orfanotrofio è meglio di raccogliere mele.”

 “Uno dei temi principali del film è senz’altro quello evidenziato dal titolo: il tema delle regole. In particolare risulta incisivo il parallelismo fra due tipi di regole, sostanzialmente differenti: un gruppo comprende norme ‘formali’ e un altro regole ‘morali’, più legate alla coscienza che non ad un esplicito codice. Questo dualismo è presente fin dalla prima fase nell’orfanotrofio del dottor Larch, nel quale, sebbene le regole ‘formali’ della legge lo vietino, viene praticato l’aborto. Il fine di quest’ultimo è, tuttavia, buono: non c’è la pretesa di fare affari, né altri doppi fini, c’è solo la volontà di aiutare persone che, prese dalla disperazione, potrebbero affidarsi a mani non professioniste, mettendo a repentaglio la propria salute. Il dott. Larch agisce dunque in conseguenza a un codice morale, sulla noncuranza di quelle leggi, redatte probabilmente da persone che non si sono mai trovate nella situazione di dover prendere una decisione e una responsabilità così grandi come quelle legate all’aborto, che risultano perciò totalmente estranee e insensate. Una situazione molto simile si ritrova nella casa del sidro, dove le regole affisse al muro della baracca sono deliberatamente trascurate dai lavoratori che la abitano. Le ragioni sono fondamentalmente le stesse: le regole sono sensibilmente frutto di persone che non hanno mai abitato la casa del sidro e non possono quindi calarsi nei panni di quei lavoratori. L’infrazione di queste regole formali non porta, nel film, a conseguenze negative, se non altro, non certo per la coscienza degli infrattori. Molto più pesanti, a livello emotivo e psicologico, sono invece le conseguenze di chi infrange dei valori ‘morali’ legati più alla coscienza, come nel caso di Homer e di Candy. Questa, che già infrangendo la formalità del divieto dell’aborto, aveva superato felicemente la difficile decisione, si trova in una situazione ancora più difficile nel momento in cui, tradito il fidanzato in servizio militare con Homer, viene a conoscenza che il partner rientrerà a casa paralizzato. Qui la coscienza non permetterà a Candy di superare la sua ‘infrazione’, facendola infatti tornare dal fidanzato mettendo all’oscuro ciò che era accaduto in sua assenza e, probabilmente, dimenticandolo.”

 “L’attrazione che si sviluppa fra i personaggi di Homer e Candy conferisce una forte tensione all’intera narrazione. Il tema viene affrontato in maniera diversa dai due e assume un diverso significato per ciascuno: per Homer costituisce la prima scoperta di un’attrazione per il mondo femminile in tutte le sue sfaccettature, tale da provocare in lui sentimenti così forti da fargli perdere i suoi freni inibitori e ad annebbiare il suo buon senso; per Candy sembra quasi che si configuri più come una sorta di gioco, una sorta di capriccio per dare sfogo ai suoi istinti di frivolezza, una sfida nei confronti di un ragazzo semplice, umile, innocente ed onesto. Il vero animo di Candy e la sua integrità morale, seppur offuscata da questo suo carattere superficiale, emergeranno soltanto di fronte alle difficoltà: quando il suo vero fidanzato infatti si troverà ad essere in stato di paralisi a causa di un incidente aereo, lei stessa non esiterà a decidere di stargli accanto e di dedicarsi completamente a lui, nonostante la difficoltà della scelta intrapresa. D’altra parte Homer, che si era lasciato condurre in qualcosa forse più grande di lui, si troverà ad aver perso la sua innocenza e a provare dei forti sentimenti per una persona che non sente più il bisogno di averlo accanto: questo ci dà un’idea della dimensione realistica che è all’interno della narrazione e che trova esempi nella vita di ogni giorno; la vita è fatta anche di delusioni, amarezze, concessioni poco accorte di fiducia cieca, ma certo questi aspetti hanno anche un senso costruttivo, e contribuiscono in qualche modo a renderci più consapevoli e maturi di noi stessi e degli altri. Dal punto di vista del messaggio che viene a richiamare la nostra attenzione, il regista ci vuole comunicare il classico principio che istituisce che chi trasgredisce in qualche modo la legge morale di onestà e rispetto debba essere punito. Emblematico a proposito è l’esempio di Homer che, intrattenutosi con Candy in modo occulto nei confronti del suo fidanzato e, lasciatosi ammaliare dal suo aspetto e dai suoi costumi, al termine della narrazione si troverà ad essere solo.”

 “La riflessione che ha suscitato in me la visione del film, si è rivelata molto utile per aiutarmi a dare una forma concreta e precisa su molti miei pensieri, riguardanti l’aborto, che ho sempre tenuti impliciti e vaghi. È stata in particolare la vicenda tra Rose e il padre a colpirmi e a farmi riflettere maggiormente, e le conclusioni a cui sono giunta sono queste: l’aborto è, di per sé, un atto spregevole e ingiusto; ma, come ogni azione bella o brutta che sia, va necessariamente contestualizzata. Nel momento in cui la donna rimasta incinta non è la responsabile della gravidanza, e non è in condizioni fisiche o psicologiche adatte per portare a termine la gravidanza, è a mio parere giustificata ad abortire. Non si parla di mancanza di soldi o di mezzi di prima necessità: i beni materiali passano in secondo piano, in una situazione del genere. Non si tratta nemmeno di dover affrontare l’esperienza da soli: una volta partorito, il neonato può essere affidato, anche anonimamente, all’ospedale, che se ne prenderà cura. Il problema è se la madre sia in grado di gestire una cosa così impegnativa, se sia abbastanza brava ad assumersi la responsabilità di un’altra vita nelle sue mani, oltre la propria, e che sia pronta a donare al bambino tutto l’amore di cui ha bisogno. Anche la situazione opposta può essere rischiosa: una donna che desidera tanto un figlio, al punto da rimanere incinta e partorire, poi si rivela incapace, se pur con migliori intenzioni, di gestire la situazione, non può continuare a fare la madre: il bambino non deve solo nascere e sopravvivere, deve ancora vivere e imparare a farlo, e le circostanze in cui il piccolo può crescere bene e in salute devono essere preparate dai genitori, che abbandonano una visione della vita in cui il fine era la realizzazione di se stesso, e ne assumono un’altra, il cui scopo è quello di realizzare la crescita, la maturazione e la felicità del figlio.”

 “Uno dei temi principali di questo film è quello del rapporto fra le persone e la legge, e le regole imposte da essa. Nella casa dove vivono i raccoglitori di mele sono appese sulla parete delle regole scritte dai proprietari e che non sono accettate dai lavoratori perché le ritengono ingiuste e senza senso: sono state scritte da persone che non hanno mai vissuto lì e che non possono capire quali siano i desideri e le necessità di quella piccola ‘comunità’; anche se con diverse e più gravi implicazioni, la scelta del dottor Larch di compiere aborti (pratica illegale), dettata da una sua personale scelta, è riconducibile ad una simile opinione riguardo le regole e le leggi: egli decide di fare ciò perché ritiene in questo modo di poter aiutare delle donne che, altrimenti, per giungere al risultato voluto, avrebbero rischiato di mettersi nelle mani di persone incapaci e, in questo modo, avrebbero messo a repentaglio la loro vita. La scelta del dottore è quindi dettata dalla volontà di fare del bene, seppur contravvenendo alle leggi. Ci sono troppi casi particolari e bisognerebbe conoscere molto bene le situazioni per poter imporre delle regole universali e spesso la cosa più importante si rivela il buon senso che una persona ha.”

 “Nel film che abbiamo guardato nelle scorse settimane e, fra i tanti temi che vengono posti alla nostra attenzione, uno in particolare mi ha interessato: si intrecciano molte relazioni, amorose e non, che attraverso le diversità di ciascuno fanno capire allo spettatore e agli stessi personaggi (vedi Candy e Homer) che, come l’uguaglianza, questa diversità è un carattere imprescindibile in una relazione umana. Ognuno di noi infatti non solo si identifica coi propri simili, ma cerca nel contempo il proprio opposto, così come nel mito platonico degli Androgini; infatti, siamo naturalmente portati a cercare il nostro complementare, per poter così giungere alla più totale realizzazione di noi stessi in quanto esseri umani.”



“«Le regole della casa del sidro» è uno di quei film che ti stupisce piacevolmente; inizi a guardarlo pensando di essere davanti ad uno dei tanti film che hanno come tema principale una storia d’amore tra due protagonisti che devono vivere le difficoltà di una società sconvolta dalla guerra, ma ci si accorge presto che questo film è diverso da tutti gli altri. Questo è un film che fa riflettere profondamente su molti aspetti della vita e dei comportamenti dell’uomo, fa capire come i sentimenti condizionino fortemente il modo di agire delle persone, ma anche come spesso gli uomini per egoismo confondano il bisogno di non sentirsi soli con l’amore, come ad esempio succede a Candy che, come lei stessa dice, non è mai stata brava a star sola e quindi dopo la partenza di Wally per la guerra inizia una relazione segreta con Homer, vero protagonista della storia, tornando tuttavia sui suoi passi in poco tempo quando il suo fidanzato tornerà dalla guerra gravemente ferito. Già qui possiamo trovare uno spunto per riflettere su uno dei molti temi del film: il senso di colpa; è proprio il senso di colpa quello che porta Candy a ritornare da Wally non appena questo torna a casa paralizzato, ed è sempre il senso di colpa che porta Mr. Rose, capo dei raccoglitori, reo di aver violentato e messo incinta la propria figlia Rose Rose, a lasciarsi morire dopo che la figlia lo aveva accoltellato una prima volta e dopo che si era volontariamente colpito altre volte; in entrambi i casi qui possiamo vedere come ad un certo punto arriva sempre un momento in cui ci si rende conto degli errori commessi a causa della nostra natura egoista, e arrivati a quel punto si possono fare due cose: tornare indietro sui propri passi facendo comunque soffrire qualcuno, oppure essendo arrivati ad un punto in cui indietro non si torna l’unica soluzione è sparire per sempre per non far più del male. Senza dubbio nel film è visibile anche il lato possessivo delle persone; in un rapporto ad esempio come quello tra il dottor Larch e Homer è palese come il dottore cerchi di chiudere qualsiasi ‘via di fuga’ dall’orfanotrofio al giovane, questo non per cattiveria, quanto per una ipocrita convinzione che Homer non sia ‘adatto’ alla vita reale, ma solo a quella dell’orfanotrofio, dove sarebbe dovuto rimanere, nei piani del medico, a sostituirlo. Sarà invece proprio grazie alla conoscenza del ‘mondo reale’, delle debolezze dell’uomo e dell’amore che Homer capirà quale sarebbe stato il ruolo che avrebbe dovuto occupare nel mondo, anche se questo ruolo comportava tornare all’orfanotrofio di St. Cloud’s. Proprio il personaggio di Homer è quello che cresce di più durante la storia e capisce cosa sia giusto fare, non solo pensando al proprio bene, ma pensando a quello altrui, sia ai bambini dell’orfanotrofio sia alle donne che si rivolgevano a Larch per abortire, pratica che lui riteneva sbagliata ma che poi capirà, a causa della vicenda di Mr. Rose e della figlia, essere in certi casi necessaria per la vita di alcune persone. Sottolineato nel titolo inoltre c’è il tema delle regole: regole fatte sia per permettere la civile convivenza delle persone, sia per controllare e limitare il pensiero delle persone stesse; senza dubbio qui vediamo come proprio le regole tese alla limitazione dell’uomo siano eluse senza alcuna remora, per bisogno proprio dell’uomo che le infrange di rivendicare la propria libertà, sia nel caso delle regole ‘della casa del sidro’, sia nel caso delle regole imposte dalla società bigotta del tempo, come quelle sull’aborto. Senza dubbio altre milioni di riflessioni diverse saranno venute ad altre persone che hanno visto questo film, che va visto senza dubbio e che riuscirebbe senza dubbio a toccare e commuovere anche la persona più fredda su questa terra.”

 “«Giocare a Dio»… l’accusa che Homer rivolge in una lettera al dott. Larch mi sembra possa essere un’efficace descrizione del modo in cui i protagonisti del film vivono le loro relazioni… giocano… con la vita degli altri… forse perché bisognosi di rendere eccezionale una vita che, altrimenti, resterebbe mediocre ed insignificante… giocano a fare Dio… dimenticandosi di essere uomini… fragili… terribilmente fragili… Gioca il dott. Larch… a salvare bambini figli di nessuno e a salvare donne madri dell’istinto… ed è un gioco serio il suo, teso a prendersi cura di coloro di cui nessuno altrimenti si occuperebbe, ma questo gioco poi sfocia in un ‘inebriamento’ di onnipotenza che lo ucciderà… Gioca Mr. Rose… a fare il ‘capo’ impareggiabile e il ‘padre’ integerrimo… maschere che nascondono il suo bisogno di controllare e possedere tutto, perfino la vita di sua figlia… e proprio la ‘sua’ creatura violata gli strapperà violentemente la vita… Gioca Homer… con la vita di Candy, con il suo desiderio di sentirsi adorato e corteggiato… gioca perché nessuno gli ha mai fatto sentire la tenera carezza di un amore che dona rispetto e libertà… e, quando finalmente impara ad amare, si troverà solo… orfano di se stesso…
A fronte della tentazione costante che insidia anche la nostra vita – quella di ‘giocare a fare Dio’ – questo film mi sembra uno splendido invito a non aver paura di ‘accontentarci’ di essere veramente ed autenticamente uomini… nelle drammaticità delle scelte che ogni giorno abbiamo da compiere, nella fragilità dei nostri desideri, nella tenerezza dei nostri amori… qui, proprio qui, su questa terra imbevuta di sangue, ci ‘giochiamo’ il rischio della nostra libertà… nel rispetto dell’altro, nel desiderio che dona gioia, nel riconoscere l’alterità del volto di chi mi sta davanti… questa – e solo questa – è la ‘regola’ del nostro vivere… e il compito che ci spetta: imparare l’umanità… unica libertà… che salva…”

domenica 12 febbraio 2012

TERZE LICEO - Alcune questioni di bioetica

Il Magistero della Chiesa:

- Documento della Congregazione per la Dottrina della Fede "DONUM VITAE" (Sul rispetto della vita umana nascente e la dignità della procreazione), 22 febbraio 1987:
             I. IL RISPETTO DEGLI EMBRIONI UMANI
                - la diagnosi prenatale
                - gli interventi terapeutici sull'embrione umano
                - la ricerca e la sperimentazione sugli embrioni e sui feti umani
            II. INTERVENTI SULLA PROCREAZIONE UMANA
                - la fecondazione artificiale eterologa
                   (inseminazione artificiale eterologa e FIVET eterologa)
                - la fecondazione artificiale omologa
                   (inseminazione artificiale omologa e FIVET omologa)

- Documento della Congregazione per la Dottrina della Fede "DIGNITAS PERSONAE" (Su alcune questioni di bioetica), 8 settembre 2008:



martedì 7 febbraio 2012

SECONDE LICEO - La fede nella creazione e la teoria dell'evoluzione: alternativa o conciliazione?

LETTURE CONSIGLIATE SUL TEMA:

- Joseph Ratzinger/Benedetto XVI, In principio Dio creò il cielo e la terra. Riflessioni sulla creazione e il peccato, «I Pellicani» - religione, cristianesimo, spiritualità – Edizioni Lindau, Torino Ottobre 2006.


- Horn Stephan Otto, Wiedenhofer Siegfried (a cura di), Creazione ed evoluzione. Un convegno con Papa Benedetto XVI a Castel Gandolfo. Prefazione del card. Christoph Schönborn - Su incarico dello Schülerkreis (Gruppo di allievi) di Papa Benedetto XVI, Ed. Dehoniane, Bologna 2007.


- Pierre Teilhard de Chardin (1881-1955) [teologo gesuita, paleontologo e scienziato, che ha tentato nei suoi scritti una conciliazione tra la fede nella creazione e teoria scientifica dell'evoluzione]:
     http://it.wikipedia.org/wiki/Pierre_Teilhard_de_Chardin
    

PRIME LICEO - L'Induismo


Dalla Bhagavadgita, canto IV, 18-23 (Ed. Adelphi, Milano 1991, pag. 63-64):

"Il Beato Signore disse:
    Colui che sa vedere nell'agire il non-agire e nel non-agire l'azione, questi tra tutti gli uomini
    possiede la vigilanza della mente, quegli è unificato nello yoga, quegli assolve tutti i suoi compiti.
     
    Quegli tutte le imprese del quale sono affrancate dal desiderio e da progetti [interessati], è lui
    che chiama saggio la gente avveduta, quegli il cui agire è bruciato dal fuoco della conoscenza.

    Abbandonando ogni attaccamento al frutto dell'atto, eternamente soddisfatto, non cercando
    alcun appoggio [esterno], anche se si impegna nell'azione, non <<fa>> assolutamente nulla.

    Non domandando nè aspettando nulla, padrone della propria mente e di tutta la propria persona,
    poichè ha rinunciato a ogni appropriazione e non compie atti se non corporalmente,
    non cade in errore alcuno.

    Soddisfatto di quanto riceve per caso, avendo superato le coppie dei contrari, esente da egoismo,
    sempre uguale nel successo come nell'insuccesso, anche se agisce non è legato.

    Quando ogni attaccamento se ne è andato, ed egli è affrancato da ogni legame, e la sua mente è
    stabilita nella conoscenza [liberatrice] ed egli agisce in vista soltanto del sacrificio, tutto intero
    il suo atto si dissolve."

Statua di Shiva Nataraja, il Signore della Danza:

  

TERZE LICEO - L'eutanasia

IL MAGISTERO DELLA CHIESA:
Dall'Enciclica di Giovanni Paolo II "EVANGELIUM VITAE" sul valore e l'inviolabilità della vita umana (nn°64-67):


64. All'altro capo dell'esistenza, l'uomo si trova posto di fronte al mistero della morte. Oggi, in seguito ai progressi della medicina e in un contesto culturale spesso chiuso alla trascendenza, l'esperienza del morire si presenta con alcune caratteristiche nuove. Infatti, quando prevale la tendenza ad apprezzare la vita solo nella misura in cui porta piacere e benessere, la sofferenza appare come uno scacco insopportabile, di cui occorre liberarsi ad ogni costo. La morte, considerata «assurda» se interrompe improvvisamente una vita ancora aperta a un futuro ricco di possibili esperienze interessanti, diventa invece una «liberazione rivendicata» quando l'esistenza è ritenuta ormai priva di senso perché immersa nel dolore e inesorabilmente votata ad un'ulteriore più acuta sofferenza.
Inoltre, rifiutando o dimenticando il suo fondamentale rapporto con Dio, l'uomo pensa di essere criterio e norma a se stesso e ritiene di avere il diritto di chiedere anche alla società di garantirgli possibilità e modi di decidere della propria vita in piena e totale autonomia. È, in particolare, l'uomo che vive nei Paesi sviluppati a comportarsi così: egli si sente spinto a ciò anche dai continui progressi della medicina e dalle sue tecniche sempre più avanzate. Mediante sistemi e apparecchiature estremamente sofisticati, la scienza e la pratica medica sono oggi in grado non solo di risolvere casi precedentemente insolubili e di lenire o eliminare il dolore, ma anche di sostenere e protrarre la vita perfino in situazioni di debolezza estrema, di rianimare artificialmente persone le cui funzioni biologiche elementari hanno subito tracolli improvvisi, di intervenire per rendere disponibili organi da trapiantare.
In un tale contesto si fa sempre più forte la tentazione dell'eutanasia, cioè di impadronirsi della morte, procurandola in anticipo e ponendo così fine «dolcemente» alla vita propria o altrui. In realtà, ciò che potrebbe sembrare logico e umano, visto in profondità si presenta assurdo e disumano. Siamo qui di fronte a uno dei sintomi più allarmanti della «cultura di morte», che avanza soprattutto nelle società del benessere, caratterizzate da una mentalità efficientistica che fa apparire troppo oneroso e insopportabile il numero crescente delle persone anziane e debilitate. Esse vengono molto spesso isolate dalla famiglia e dalla società, organizzate quasi esclusivamente sulla base di criteri di efficienza produttiva, secondo i quali una vita irrimediabilmente inabile non ha più alcun valore.

65. Per un corretto giudizio morale sull'eutanasia, occorre innanzitutto chiaramente definirla. Per eutanasia in senso vero e proprio si deve intendere un'azione o un'omissione che di natura sua e nelle intenzioni procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore. «L'eutanasia si situa, dunque, al livello delle intenzioni e dei metodi usati».76
Da essa va distinta la decisione di rinunciare al cosiddetto «accanimento terapeutico», ossia a certi interventi medici non più adeguati alla reale situazione del malato, perché ormai sproporzionati ai risultati che si potrebbero sperare o anche perché troppo gravosi per lui e per la sua famiglia. In queste situazioni, quando la morte si preannuncia imminente e inevitabile, si può in coscienza «rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, senza tuttavia interrompere le cure normali dovute all'ammalato in simili casi».77 Si dà certamente l'obbligo morale di curarsi e di farsi curare, ma tale obbligo deve misurarsi con le situazioni concrete; occorre cioè valutare se i mezzi terapeutici a disposizione siano oggettivamente proporzionati rispetto alle prospettive di miglioramento. La rinuncia a mezzi straordinari o sproporzionati non equivale al suicidio o all'eutanasia; esprime piuttosto l'accettazione della condizione umana di fronte alla morte.78
Nella medicina moderna vanno acquistando rilievo particolare le cosiddette «cure palliative», destinate a rendere più sopportabile la sofferenza nella fase finale della malattia e ad assicurare al tempo stesso al paziente un adeguato accompagnamento umano. In questo contesto sorge, tra gli altri, il problema della liceità del ricorso ai diversi tipi di analgesici e sedativi per sollevare il malato dal dolore, quando ciò comporta il rischio di abbreviargli la vita. Se, infatti, può essere considerato degno di lode chi accetta volontariamente di soffrire rinunciando a interventi antidolorifici per conservare la piena lucidità e partecipare, se credente, in maniera consapevole alla passione del Signore, tale comportamento «eroico» non può essere ritenuto doveroso per tutti. Già Pio XII aveva affermato che è lecito sopprimere il dolore per mezzo di narcotici, pur con la conseguenza di limitare la coscienza e di abbreviare la vita, «se non esistono altri mezzi e se, nelle date circostanze, ciò non impedisce l'adempimento di altri doveri religiosi e morali».79 In questo caso, infatti, la morte non è voluta o ricercata, nonostante che per motivi ragionevoli se ne corra il rischio: semplicemente si vuole lenire il dolore in maniera efficace, ricorrendo agli analgesici messi a disposizione dalla medicina. Tuttavia, «non si deve privare il moribondo della coscienza di sé senza grave motivo»: 80 avvicinandosi alla morte, gli uomini devono essere in grado di poter soddisfare ai loro obblighi morali e familiari e soprattutto devono potersi preparare con piena coscienza all'incontro definitivo con Dio.
Fatte queste distinzioni, in conformità con il Magistero dei miei Predecessori 81 e in comunione con i Vescovi della Chiesa cattolica, confermo che l'eutanasia è una grave violazione della Legge di Dio, in quanto uccisione deliberata moralmente inaccettabile di una persona umana. Tale dottrina è fondata sulla legge naturale e sulla Parola di Dio scritta, è trasmessa dalla Tradizione della Chiesa ed insegnata dal Magistero ordinario e universale.82
Una tale pratica comporta, a seconda delle circostanze, la malizia propria del suicidio o dell'omicidio.

66. Ora, il suicidio è sempre moralmente inaccettabile quanto l'omicidio. La tradizione della Chiesa l'ha sempre respinto come scelta gravemente cattiva.83 Benché determinati condizionamenti psicologici, culturali e sociali possano portare a compiere un gesto che contraddice così radicalmente l'innata inclinazione di ognuno alla vita, attenuando o annullando la responsabilità soggettiva, il suicidio, sotto il profilo oggettivo, è un atto gravemente immorale, perché comporta il rifiuto dell'amore verso se stessi e la rinuncia ai doveri di giustizia e di carità verso il prossimo, verso le varie comunità di cui si fa parte e verso la società nel suo insieme.84 Nel suo nucleo più profondo, esso costituisce un rifiuto della sovranità assoluta di Dio sulla vita e sulla morte, così proclamata nella preghiera dell'antico saggio di Israele: «Tu hai potere sulla vita e sulla morte; conduci giù alle porte degli inferi e fai risalire» (Sap 16, 13; cf. Tb 13, 2).
Condividere l'intenzione suicida di un altro e aiutarlo a realizzarla mediante il cosiddetto «suicidio assistito» significa farsi collaboratori, e qualche volta attori in prima persona, di un'ingiustizia, che non può mai essere giustificata, neppure quando fosse richiesta. «Non è mai lecito — scrive con sorprendente attualità sant'Agostino — uccidere un altro: anche se lui lo volesse, anzi se lo chiedesse perché, sospeso tra la vita e la morte, supplica di essere aiutato a liberare l'anima che lotta contro i legami del corpo e desidera distaccarsene; non è lecito neppure quando il malato non fosse più in grado di vivere».85 Anche se non motivata dal rifiuto egoistico di farsi carico dell'esistenza di chi soffre, l'eutanasia deve dirsi una falsa pietà, anzi una preoccupante «perversione» di essa: la vera «compassione», infatti, rende solidale col dolore altrui, non sopprime colui del quale non si può sopportare la sofferenza. E tanto più perverso appare il gesto dell'eutanasia se viene compiuto da coloro che — come i parenti — dovrebbero assistere con pazienza e con amore il loro congiunto o da quanti — come i medici —, per la loro specifica professione, dovrebbero curare il malato anche nelle condizioni terminali più penose.
La scelta dell'eutanasia diventa più grave quando si configura come un omicidio che gli altri praticano su una persona che non l'ha richiesta in nessun modo e che non ha mai dato ad essa alcun consenso. Si raggiunge poi il colmo dell'arbitrio e dell'ingiustizia quando alcuni, medici o legislatori, si arrogano il potere di decidere chi debba vivere e chi debba morire. Si ripropone così la tentazione dell'Eden: diventare come Dio «conoscendo il bene e il male» (cf. Gn 3, 5). Ma Dio solo ha il potere di far morire e di far vivere: «Sono io che do la morte e faccio vivere» (Dt 32, 39; cf. 2 Re 5, 7; 1 Sam 2, 6). Egli attua il suo potere sempre e solo secondo un disegno di sapienza e di amore. Quando l'uomo usurpa tale potere, soggiogato da una logica di stoltezza e di egoismo, inevitabilmente lo usa per l'ingiustizia e per la morte.
Così la vita del più debole è messa nelle mani del più forte; nella società si perde il senso della giustizia ed è minata alla radice la fiducia reciproca, fondamento di ogni autentico rapporto tra le persone.

67. Ben diversa, invece, è la via dell'amore e della vera pietà, che la nostra comune umanità impone e che la fede in Cristo Redentore, morto e risorto, illumina con nuove ragioni. La domanda che sgorga dal cuore dell'uomo nel confronto supremo con la sofferenza e la morte, specialmente quando è tentato di ripiegarsi nella disperazione e quasi di annientarsi in essa, è soprattutto domanda di compagnia, di solidarietà e di sostegno nella prova. È richiesta di aiuto per continuare a sperare, quando tutte le speranze umane vengono meno. Come ci ha ricordato il Concilio Vaticano II, «in faccia alla morte l'enigma della condizione umana diventa sommo» per l'uomo; e tuttavia «l'istinto del cuore lo fa giudicare rettamente, quando aborrisce e respinge l'idea di una totale rovina e di un annientamento definitivo della sua persona. Il germe dell'eternità che porta in sé, irriducibile com'è alla sola materia, insorge contro la morte».86
Questa naturale ripugnanza per la morte e questa germinale speranza di immortalità sono illuminate e portate a compimento dalla fede cristiana, che promette e offre la partecipazione alla vittoria del Cristo Risorto: è la vittoria di Colui che, mediante la sua morte redentrice, ha liberato l'uomo dalla morte, «salario del peccato» (Rm 6, 23), e gli ha donato lo Spirito, pegno di risurrezione e di vita (cf. Rm 8, 11). La certezza dell'immortalità futura e la speranza nella risurrezione promessa proiettano una luce nuova sul mistero del soffrire e del morire e infondono nel credente una forza straordinaria per affidarsi al disegno di Dio.
L'apostolo Paolo ha espresso questa novità nei termini di un'appartenenza totale al Signore che abbraccia qualsiasi condizione umana: «Nessuno di noi vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore; se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo dunque del Signore» (Rm 14, 7-8). Morire per il Signore significa vivere la propria morte come atto supremo di obbedienza al Padre (cf. Fil 2, 8), accettando di incontrarla nell'«ora» voluta e scelta da lui (cf. Gv 13, 1), che solo può dire quando il cammino terreno è compiuto. Vivere per il Signore significa anche riconoscere che la sofferenza, pur restando in se stessa un male e una prova, può sempre diventare sorgente di bene. Lo diventa se viene vissuta per amore e con amore, nella partecipazione, per dono gratuito di Dio e per libera scelta personale, alla sofferenza stessa di Cristo crocifisso. In tal modo, chi vive la sua sofferenza nel Signore viene più pienamente conformato a lui (cf. Fil 3, 10; 1 Pt 2, 21) e intimamente associato alla sua opera redentrice a favore della Chiesa e dell'umanità.87 È questa l'esperienza dell'Apostolo, che anche ogni persona che soffre è chiamata a rivivere: «Sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca alle tribolazioni di Cristo nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa» (Col 1, 24).
DOCUMENTO DELLA CONSULTA DI BIOETICA SULL'EUTANASIA (30 gennaio 1993):
http://www.consultadibioetica.org/documento_sull_eutanasia_approvato_dall_assemblea_dei_soci_il_30_gennaio_1993.html